Per un terreno fertile

Il litigio come risorsa

Qualche anno fa, durante un corso settimanale di teatro per bambini (8/9 anni), mi sono trovata a gestire l’equilibrio di un gruppo messo a dura prova in particolare da un bambino che presentava comportamenti molto violenti, anche in situazioni serene di gioco, in assenza di apparente conflitto. La sala a mia disposizione aveva una scaletta che dava accesso ad un piccolo spazio raccolto. Ebbi l’idea di invitare i partecipanti a rendersi in quello spazio, ogni qual volta ci fossero stati problemi da risolvere. Non avevo un’idea precisa in testa, la situazione si era creata spontaneamente. Eppure fu un’esperienza estremamente interessante. Tentai di mantenere, in quello spazio, un ruolo il più neutro possibile. I bambini esprimevano il loro disagio, si giustificavano, cercavano delle soluzioni collettive per il futuro. Arrivammo a disegnare su un grande foglio delle nuvole, sopra ogni nuvola una regola del buon vivere insieme. Purtroppo non ricordo più nel dettaglio, ma rimasi stupita di come fossero capaci di fare delle vere proposte, alcune espresse in modo più poetico di quelle abitualmente concepite dal mondo adulto, ma nessuna usciva da una logica che io potessi non condividere.

Anni dopo, apprendo di scuole democratiche come quella di Summerhill, che hanno messo in pratica sistemi di autogoverno in cui i bambini di qualsiasi età hanno il diritto di espressione a tutti gli effetti e sono attori della costruzione delle leggi e della gestione della comunità. Non parlerò ora di questo, per mancanza di una vera conoscenza sulla materia.

La riflessione che voglio portare oggi è invece concentrata più sul ruolo e le competenze che l’adulto dovrebbe possedere, per creare questo spazio di libertà nel quale il bambino si senta libero e competente nella partecipazione alla vita democratica della comunità di cui fa parte.

Nel mio lavoro con gli adolescenti, ho avuto recentemente la fortuna di approfondire lo strumento delle discussioni filosofiche, in cui il ruolo del moderatore è molto sottile e, trovo, difficile: saper mettere completamente da parte le proprie idee per diventare un perno generatore di domande; essere in grado, quando la discussione lo richiede, di proporre interrogativi che hanno lo scopo di creare nuove riflessioni, nuove domande, di poter lanciare lo sguardo curioso del pensiero in zone alle quali altrimenti non si avrebbe avuto accesso, senza dare lezioni, ma indicando solo la direzione, la porta, la possibilità, il dubbio, il desiderio di esplorazione dialettica e dialogica.

Attualmente cerco di praticare questa difficile ginnastica nelle occasioni che il mio lavoro mi offre, ma gli incontri e le esperienze recenti, mi richiedono di andare più lontano nello studio di questa figura, da competenze multiple e un po’ misteriose, in grado di creare le condizioni ideali affinché le persone possano comunicare nel modo più costruttivo possibile. Penso in particolare, per interesse personale, alle situazioni di conflitto tra bambini.

Il caso mi ha fatto capitare in mano il libro Urlare non serve a nulla. Gestire i conflitti con i figli per farsi ascoltare e guidarli nella crescita, nel quale ho trovato alcuni spunti interessanti per avanzare in questa direzione. E’ stato scritto dal pedagogista Daniele Novara che nel 1989 ha fondato il CPP (Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti).

La prima riflessione che ha attirato la mia attenzione, per banale che possa essere, è l’accettazione del conflitto come momento di crescita. La famosa famiglia del Mulino Bianco, sarebbe ai suoi occhi sospetta e certamente portatrice di problemi irrisolti. Daniele Novara condanna la sovrapposizione che viene fatta tra il concetto di conflitto e quello di violenza. Trattandoli come sinonimi, si veste il conflitto di una negatività che invece non possiede, perché laddove la violenza distrugge, il conflitto, dal latino cum- (con) e fligere (urtare), fa incontrare (per quanto questo incontro/scontro sia carico di una specifica ed intensa emotività).

Leggo a pagina 123:

“Il conflitto è una questione di manutenzione relazionale. E’ nel conflitto che possiamo scoprire e riconoscere le nostre capacità di vivere e accettare le differenze altrui, che possiamo accettare l’opposizione per cogliere altri punti di vista, per immaginare nuovi esiti e individuare accordi più efficaci. La violenza, come la guerra, è esattamente il contrario: un movimento che rifiuta l’altro, eliminatorio del contrasto”.

La violenza tende ad eliminare il problema, mentre il conflitto ha il coraggio di passarci attraverso. E questo cammino, se lo si accoglie come normale “manutenzione relazionale”, ci arricchisce e arricchisce la relazione, andando a pescare più in profondità nella comprensione dei bisogni dell’altro (e di se stessi).

Una tale considerazione del conflitto cambia profondamente l’atteggiamento che da persona esterna si può avere nell’osservazione, ad esempio, di due bambini che litigano. In genere c’è un rifiuto, un invito a non entrare in conflitto, a comportarsi “bene” (quando i bambini vanno d’amore e d’accordo sono etichettati come “bravi”). Eppure, ogni litigio è una risorsa. Talvolta l’intervento esterno è proprio del tutto inutile, perché i bambini (soprattutto se intorno hanno esempi di adulti che sanno litigare) approfittano di questi momenti per allenare le loro competenze ad entrare in conflitto. Talvolta (e sottolineo talvolta) l’accompagnamento dell’adulto può aiutarli, come nel caso delle discussioni filosofiche di cui parlavo sopra, a farsi le buone domande e a trovare la strada migliore per attraversare questo momento.

Daniele Novara propone il metodo maieutico, adatto ai bambini tra i 3 e i 10 anni, che lui riassume con “due passi indietro e due passi avanti“.

“Per riuscire ad attivare veri processi comunicativi tra chi litiga, occorre restarne fuori”,

per far ciò, l’adulto che mi piace chiamare “facilitatore” non deve mettersi alla ricerca del colpevole (ergersi a giudice), né fornire soluzioni al litigio (i bambini sono in grado di farlo da soli). Non si cerca di trovare la risposta esatta, ma di permettere ai presenti di sviluppare la capacità di gestire la situazione. L’adulto potrà allora, dopo questi passi indietro, proporre i due passi avanti: far parlare tra loro del litigio (ribadisco, tra loro, non con l’adulto giudicante) e favorire il raggiungimento di un accordo. Per farli parlare tra loro, molto semplicemente, si propone di invitare i litiganti a fornire all’altro la propria versione dei fatti.

“L’efficacia di questo passaggio non dipende dalla correttezza della versione che i figli danno del litigio ma è meramente organizzativa. Quello che conta è che si sforzino di parlarsi, di ascoltarsi, di rispettare le diverse posizioni dei fratelli o degli amici e compagni, non che dicano esattamente la verità! Il genitore è responsabile di questo importantissimo atto di reciprocità divergente”.

In genere, una volta che i bambini si sono spiegati, riescono il più delle volte a trovare un accordo, ad “individuare un atto di autoregolazione”. Questo può anche manifestarsi con la rinuncia di uno dei due litiganti, che non deve essere interpretata come una debolezza.

“Spesso la capacità di rinunciare richiede competenze e risorse interiori che invece chi non ha saputo cedere non ha ancora acquisito”.

Resta importante, nel facilitatore, il saper restare a debita distanza e l’umiltà di capire che nella maggior parte dei casi il suo intervento non sarà necessario. Lasciare ai bambini lo spazio di discussione e di confronto, saper dire, quando cercano di mettere in mezzo l’adulto: “questa è una questione che potete risolvere da soli”, dar loro fiducia, permetter loro di sviluppare la capacità di confrontarsi senza caricare la conflittualità di emozioni negative, lasciar loro costruire ricordi positivi legati al litigio (a come si è stati più o meno serenamente capaci di affrontarlo e a come ci si è sentiti dopo averlo attraversato). E’ inoltre fondamentale che il facilitatore sappia capire quando la sua presenza è effettivamente utile; coltivare la consapevolezza che se i bambini sono stati accompagnati adeguatamente, se hanno imparato a litigare, il suo intervento può dissolversi, deve farsi da parte per lasciar il bambino risolvere le sue questioni relazionali con i diretti interessati.

C’è un altro libro dello stesso autore, nel quale andrò certamente a curiosare, che dal titolo si concentra proprio sull’acquisizione di queste competenze Litigare fa bene. Insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, per crescerli più sicuri e felici.

Nel frattempo, penso sia arrivato il momento di rispolverare Le parole sono finestre (oppure muri). Introduzione alla comunicazione nonviolenta per l’ascolto attivo e Genitori efficaci. Educare figli responsabili per l’applicazione di questo ascolto nella relazione adulti/bambini.

Particolarmente in questo periodo di confinamento, buon litigio a tutti.

Per un terreno fertile

Le sei tappe per una relazione sana coi nostri figli (secondo A. Faber e E. Mazlish)

Sono sei le tappe per cominciare a migliorare la relazione coi nostri figli, di qualsiasi età. Ce lo dicono Marylin Segat e Laurence Demanet, in una conferenza tenutasi la settimana scorsa ed organizzata dall’Associazione dei Genitori delle Scuole Europee di Bruxelles. Lo scopo della conferenza era di dare una prima infarinata all’approccio di educazione positiva di Faber-Mazlish, autori, tra l’altro, di “Come parlare perché i bambini ti ascoltino & come ascoltare perché ti parlino” e di “Come parlare perché i ragazzi ti ascoltino & come ascoltare perché ti parlino” .

Cominciamo con un banale esempio tipico di conflitto casalingo:

Franca, i tuoi giochi sono tutti sul tappeto, mi fai il piacere di metterli a posto?“. Tattica della gentilezza. Aspettiamo un po’, non funziona.

Franca, alla tua età sei capace, direi, di metterli in ordine! Ti sarà poi più facile ritrovarli“. Tattica della ragione. Aspettiamo un po’, non funziona.

Il nervosismo sale: “Franca, te l’ho detto mille volte di mettere a posto, te li butto tutti questi giochi, sei inaffidabile, stasera te li scordi i pancakes!“. Magari la tiriamo anche un po’ fisicamente per farle vedere il disordine. Siamo arrivati ai metodi della forza, del ricatto, della punizione, dell’aggressività.

Abbiamo gridato, ci sentiamo in colpa, abbiamo incrinato la nostra relazione con nostra figlia, magari mettiamo pure a posto noi e ci andiamo a scusare con lei, mentre piange disperatamente in camera sua.

Fantastico. E domani? E dopodomani?

La stessa storia.

Le riflessioni educative che seguono hanno il principale obiettivo di mettere al centro delle nostre preoccupazioni la salvaguardia della relazione, e di sapere, quando la incriniamo, come riparare.

La prima tappa essenziale, senza la quale le altre non servono a nulla, è l’empatia.

Cercare di capire ciò che l’altro prova. Ascoltarlo, lasciare che si esprima, senza farlo sentire giudicato. In questo modo si fa raffreddare il termometro emotivo che, in piena crisi, non lascia spazio alla razionalità. Se non si abbassa questo “troppo pieno” emotivo, sarà inutile tentare di comunicare. Lasciar calmare la persona accogliendone l’emotività, entrare in contatto attraverso un ascolto attivo, senza provare a trovare una soluzione, a dare giudizi. Essere giusto lì per l’altro.

Una volta che l’empatia ci ha permesso di connetterci all’altro, possiamo passare alla seconda tappa: suscitare la cooperazione.

Tra tutte le azioni che vorremmo che facessero i bambini o ragazzi di cui ci occupiamo, e quelle che invece vorremmo non facessero, le nostre giornate sono un campo minato di bombe ad orologeria, pronte a scoppiettare in serie in ogni momento (specialmente quando siamo più stanchi o abbiamo priorità che vengono ostacolate dal loro comportamento).

Se le regole sono chiare dall’inizio (ad es. prima di andare a dormire ci si mette il pigiama e ci si lavano i denti), non c’è bisogno di mille parole moralizzatrici, né di dare ordini che offenderebbero o avvilirebbero chiunque (quanta voglia avete di far piacere a qualcuno che ha un uso profuso degli imperativi, dimenticando il potere delle paroline magiche e della gentilezza?). A volte basta solo un promemoria verbale (o perché no, anche fisico, mettendo al muro delle allegre liste con oggetti calamitati da spostare quando le operazioni sono andate a buon fine). Invece di “Carlo!! Sono le nove! Ancora non ti sei messo il pigiama! Come al solito… quante volte te lo devo dire… non mi fare arrabbiare...” (e chi più ne ha più ne metta), proviamo con un semplice minimalista “pigiama!“. Senza verbi imperativi, senza chiamarlo per nome (caricato emotivamente), giusto un post-it vocale. Ovviamente se il sottotesto è “(Carlo, mettiti questo cavolo di) PIGIAMA (!!!)“, ci sono poche probabilità di avere migliori risultati.

Qualsiasi cambiamento che mettiamo in atto per migliorare la nostra relazione deve essere guidato da un sincero ed amorevole desiderio che ciò accada, non dalla sola speranza che le tecniche funzionino e che i nostri figli facciano quello che vogliamo. Se la volontà è questa, state certi che nulla cambierà, poiché nessuna relazione sana può fondarsi sulla dominazione e la strategia opportunista (mi comporto così perché voglio ottenere qualcosa). In altri termini, queste proposte devono essere prese come mezzo per cambiare se stessi, superare i propri limiti e le cattive abitudini acquisite, insomma, per diventare una persona migliore. Il lavoro è centrato verso di noi, non verso l’ottenimento di un cambiamento rapido dell’atteggiamento altrui (che avverrà certamente se noi cambiamo il nostro).

La terza tappa ci impone proprio di superare i retaggi educativi del passato: eliminare ricompense e punizioni (ho già proposto diversi post su questo tema, ne cito due per approfondimento: “No a premi e punizioni, lo dicono i toltechi“, “il culetto è mio, è mio perciò“).

Marylin Segat e Laurence Demanet propongono un esempio calzante per spiegarci l’inutilità delle punizioni: immaginate che siate su una strada con limite di velocità di 90km/h. C’è nebbia, siete in ritardo, date un colpo di acceleratore e l’autovelox vi fotografa a 120kg/h. Quali sono le vostre reazioni? In genere imprecate. Poi, dopo un po’, ricevete la multa a casa e vi arrabbiate, dite che non è colpa vostra o che siete proprio sfortunati, accusate il Comune di fare soldi su di voi, che siete un bravo cittadino che paga le tasse. Forse non la pagate, la multa, forse mandate una lettera di reclamo. Forse pagate. E la volta successiva che vi troverete a passare davanti al luogo incriminato, farete attenzione perché vi ricorderete della multa (cercando magari strategie per “fregare”, come rallentare per poi riaccelerare), e così ancora per sei mesi . Poi tra un anno, avrete probabilmente dimenticato questo fattaccio, e ricomincerete. Ebbene, in tutto questo lasso di tempo, vi è capitato di essere sfiorati per un attimo dal pensiero che se c’è quel limite, è per la sicurezza vostra e degli altri? Avete pensato che avreste potuto avere un incidente e rovinare la vita vostra o di qualcun altro? Non ci avete pensato non perché siete delle cattive persone, ma perché la punizione ha attirato la vostra attenzione verso qualcosa di molto lontano dal fatto in sé. Qual è la relazione di causa effetto tra “è pericoloso andare veloce qui” e “pago una multa”?

Siamo in ritardo, chiediamo a nostra figlia di sbrigarsi a finire la sua colazione perché dobbiamo uscire e dalla fretta lei fa cadere la tazza, che si rompe in mille pezzi in terra, schizzando la nostra maglia. Il ritardo resta ritardo qualsiasi sia la nostra reazione nei suoi confronti, ma la relazione presente e futura che cuciamo con lei può profondamente cambiare se, invece di urlare, accusare, mettere delle etichette (maldestra, incapace, disubbidiente…), ordinare, punire, etc… scegliamo di permetterle di riparare:

Oh caspita! La mia maglia! Dai, sbrighiamoci, io mi vado a cambiare e tu pulisci per terra con questo straccio per piacere, che se andiamo veloci possiamo ancora arrivare in tempo!“.

La possibilità di riparare ai propri errori (in modo pertinente, in diretto legame di causa-effetto con l’accaduto) dà fiducia al bambino, lo responsabilizza, lo rende partecipe della sua crescita, laddove la punizione crea sentimenti di inferiorità, sottomissione, desiderio di ribellione e vendetta e soprattutto la frustrazione di non poter fare nulla per tornare indietro.

Spesso se ci si approccia all’altro con empatia, se accolto amorevolmente, quando l’emotività lascia spazio alla ragione, la soluzione viene proposta proprio dalla persona che ha commesso l’errore: in condizioni favorevoli, si è colti da un desiderio di cooperazione, di ristabilire l’armonia, del tutto insiti nell’essere umano (animale sociale).

La quarta tappa è l’autonomia.

Spingerlo a fare da solo (il bambino tende naturalmente verso l’autonomia, lo dice continuamente da piccolo che vuol fare da solo, non ascoltarlo, fare al posto suo per la troppa fretta di continuare a srotolare i propri impegni quotidiani, creerà una dipendenza e insicurezza difficili da sanare). Ne va della loro autostima, della loro capacità a trovare soluzioni, a partecipare creativamente ed in prima persona alla vita.

Questa tappa ci richiede di sviluppare il talento della relativizzazione. Accettare che se la sua camicia non è intonata al pantalone perché il nostro pargolo ha scelto dei colori pugno-nell’occhio, va bene così. Se la scarpa è allacciata male, metà della cena è per terra (ma l’altra metà fieramente nella sua pancia), va bene così. Aspettiamo che i nostri piccoli ci chiedano aiuto o un consiglio quando ne hanno bisogno. Se sono per i fatti loro e ci mettono venti minuti a tappare una bottiglia, compriamoci una pallina antistress o un cubo di rubik e concentriamoci su qualcos’altro, fino a quando non ci chiederanno loro una mano. E anche lì, risolviamo per loro solo la metà del problema, affinché partecipino attivamente alla risoluzione. Altrimenti domani non ci provereranno più. Si considereranno incompetenti. E questa auto-etichetta rischierà di ampliarsi a macchia d’olio ogni qualvolta altre situazioni verranno a rafforzarla, con danni alla loro personalità difficilmente recuperabili in seguito.

Quinta tappa: complimenti e autostima.

Per approfondire, vi invito a leggere i post “Autostima e fiducia in se stessi” e “Mamma, non mi dire che sono bravo!“.

Invece di dire “ma quanto è bello il tuo disegno, dammelo che lo attacco sul frigo“, proviamo piuttosto a rispondere al suo bisogno di attenzione da parte nostra interessandoci davvero a quello che ha fatto: “Oh! Qui hai fatto un cerchio e una linea, e qui c’è una curva! Hai usato il blu, il verde, il giallo!“. Descriviamo, invece di esprimere un giudizio (per quanto positivo esso possa essere). E se proprio all’inizio non riusciamo a farne a meno (sono riflessi duri a morire), cerchiamo di esprimere piuttosto quello che sentiamo: “Ma che piacere che mi fa, vedere tutti questi colori!“. Ricordiamoci che la loro libertà mentale dipende da quanto indipendenti sono dal giudizio altrui. E tutto ciò che esce dalla nostra bocca, che siamo le loro figure di riferimento e di attaccamento principali, li marcherà per sempre. Farebbero carte false per meritare il nostro amore, il nostro apprezzamento, e ad ogni: “Che bravo che sei” è insito imprescindibilmente un subdolo “Allora non sono bravo se non faccio così“.

Sesta tappa: smetterla con le etichette.

Lo abbiamo già accennato prima, se diciamo a nostro figlio che è maldestro (o lo facciamo sentire tale quando ad esempio ha fatto cadere la tazza della colazione in terra, privandolo della possibilità di riparare con dignità) questa etichetta gli si attaccherà addosso così forte da diventare magicamente una realtà. Le parole hanno questo potere (consiglio I quattro accordi. Guida pratica alla libertà personale. Un libro di saggezza tolteca). Aboliamo il verbo essere (SEI una chiacchierona), ponendo invece l’attenzione sul comportamento, che è transitorio (oggi hai proprio tante cose da dire).

Ricordiamoci che i nostri bambini e adolescenti fanno “marachelle” il più delle volte per inviarci un messaggio, se tale input non viene recepito, i modi di esprimerlo si moltiplicheranno. La punizione, il giudizio, il mettersi al di sopra di loro, ci allontanano dalla possibilità che questo messaggio venga espresso in un modo comprensibile per noi.

Sta a noi scegliere se vogliamo investire sulla relazione, in modo duraturo, o su un’apparente sensazione di essere ubbiditi o di avere un rassicurante potere su di loro.

Non siamo in guerra. Siamo tutti sulla stessa barca…

Libri meravigliosi

Calmo e attento come una ranocchia. Esercizi di mindfulness per bambini (e genitori).

Mi piacciono i libri che ti lasciano camminare dentro. Libri che hanno vuoti da riempire con la mente. E in questo volume, di spazi ne sono lasciati tanti. Gli stimoli sono vari e diversi, dall’importanza della respirazione, ai giochi di attenzione, passando per mandala da colorare, favole da leggere, pagine da ritagliare, impressioni da lasciare sulla carta. Alcuni esercizi di yoga e meditazione per bambini da scaricare (nella versione in francese c’è annesso un CD), e tanta importanza data alla gentilezza come attitudine propizia al proprio benessere, ancor prima che all’eventuale benessere che essa può certamente provocare negli altri.

L’ho trovato davvero un libro completo, per la proposta delle attività che toccano tutti i sensi e invitano il bambino ad una passeggiata che può iniziare aprendo una qualsiasi pagina, spinti dal caso o dalla voglia del momento.

Per un terreno fertile

Elogio del punto interrogativo contro una pedagogia del punto a capo: coltiviamo la curiosità.

Il motore che mi ha spinto a creare questo blog è stato quello di lasciare una traccia, per me e per altri, delle mie ricerche e riflessioni legate al piacere di imparare, come cioè mantenere viva quella meraviglia e quella voglia di capire che ci caratterizza da piccoli e che poi si affievolisce con l’età.

All’inizio di questo percorso avevo solo le mie intuizioni, frustrazioni e desideri ad accompagnarmi. Oggi mi accorgo con grande gioia che la scienza sta studiando proprio i processi legati a quei meccanismi che considero fondanti l’apprendimento.

Daniela Lucangeli, docente di Psicologia dello sviluppo presso l’Università degli Studi di Padova ed esperta di psicologia dell’apprendimento, è una fonte ricchissima di informazioni neuroscientifiche su tutto ciò che avrei voluto sentirmi dire, ma che non mi sarei aspettata arrivassero da rinomati scienziati.

Per un terreno fertile

Il nostro cervello non è come il loro. Ovvero, i bambini non ci mettono alla prova.

Ancora oggi una crisi. Ha tre, quattro o cinque anni. Si sveglia, mi fa richieste improbabili o che sa che sono vietate. Oppure mi chiama per aiutarlo a fare qualcosa e quando arrivo rifiuta il mio aiuto. Ma allora lo fa a posta? Mi fa saltare i nervi! Mi mette alla prova?

I. Filliozat, psicoterapeuta, risponde con un gran “no“. A quell’età il bambino testa se stesso, la comunicazione, il mondo intorno in relazione a quello suo, interiore. Filliozat ci dice chiaramente (espresso a parole mie, in modo molto libero): “Ma perché, se ogni mattina è la stessa storia, se ogni mattina ti chiede cose improbabili, tu, puntualmente, ogni mattina gli dici di no, con quelle ciglia aggrottate? Eppure lo sai che quel no creerà una crisi, un vortice che renderà impossibile vestirsi, fare colazione, lavarsi i denti, una reazione a catena che vi porterà, ancora una volta, a passare un pessimo momento insieme, di reciproca violenza verbale e fisica“.

E quindi? Direte voi, quindi dovrei dargliela sempre vinta? No.

Per un terreno fertile

Esercizi d’empatia. L’angelo custode.

In Danimarca la studiano a scuola. Il neuroscienziato Giacomo Rizzolatti, spiegandone la relazione con i neuroni specchio, la definisce come “un meccanismo biologico che ci fa sentire vicini agli altri e ci fa capire gli altri come fossimo noi stessi“. Rima con simpatia, e di simpatia questa parolina me ne provoca proprio tanta.

Sarà che in origine, nella Grecia antica, designava la relazione di partecipazione emozionale che intercorreva tra attore e spettatore (dal greco empatéia, composto da em-, “dentro”, e pathos, “sofferenza o sentimento”), e che da attrice mi sembra proprio carica di senso. Sarà che c’è di mezzo la parola pathos, e da italiana nel nord d’Europa, pare sia un carattere distintivo.

Fatto sta che l’empatia è diventata un appuntamento immancabile nei miei laboratori, a prescindere dal tema trattato.

Per un terreno fertile

Montessori e buone maniere. Equilibrismi tra impulsi e inibizione.

Nella scuola montessoriana dove collaboro, mi è stato chiesto l’anno scorso di occuparmi del capitolo delle “buone maniere”, perché sarei stata, secondo la direzione, la persona più adatta a tale scopo. Ho storto il naso e dopo aver riflettuto seriamente a come avrei potuto proporlo, ho lasciato perdere. Da una parte perché, nell’idea di buone maniere c’è una formalità con la quale non vado molto d’accordo, dall’altra perché, i modi che mi venivano in mente, avrebbero, a mio avviso, dato piuttosto voglia di infrangerle che di rispettarle.

Per un terreno fertile

Non in suo nome. Castighi divini e integrità del bambino.

Ero al parco, placidamente seduta su una panchina, mentre qualche gridolino più in là, mio figlio giocava col papà. 

Due cordiali e sorridenti donne mi si avvicinano e mi chiedono di fare due chiacchiere sulla religione. Mi citano passi delle sacre scritture, ci confrontiamo su come il cambiamento climatico altro non sia (per loro) che l’avverarsi della profezia divina. In fondo fin qui ci può stare, modi diversi di interpretare la realtà, di dare un nome alle cose. Poi però si finisce a parlare di educazione. Che i bambini e i genitori non sono più come quelli di una volta. Che le sacre scritture dicono che dall’alto vengono chiare prescrizioni pedagogiche di minaccia e punizione, di vile mescolanza psicoanaliticamente pericolosa tra amore e violenza:

“Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo. Mostrati dunque zelante e ravvediti”. (Ap 3, 19)

foto di Alessio Lin

 “Certo“, mi dice la più giovane, “mica si arriva subito alla sculacciata (ché una sculacciata non ha mai fatto male a nessuno), prima si prova con la voce grossa, poi si provano varie punizioni, poi se proprio non funziona… perché altrimenti dove andiamo a finire?“.

Per un terreno fertile

Korczak. Il diritto del bambino ad essere amato.

Sapeva che sarebbero venuti.

Per l’occasione, fece rammendare i loro abiti migliori. Fece aggiustare strumenti, giocattoli, i loro oggetti di valore. Il giorno del loro arrivo, i bambini della Casa dell’Orfano erano vestiti di tutto punto. Disse ai soldati dell’esercito nazista di lasciare indietro i cani latranti, che avrebbero spaventato i suoi allievi. Disse loro di non usare violenza, perché li avrebbero seguiti senza opporre resistenza. Quel giorno le strade del ghetto di Varsavia si riempirono del suono degli strumenti di un ordinato corteo di bambini bellissimi. La dignità che emanavano furiosamente e la ferita che lasciarono aperta negli occhi di chi li vide, non dovette essere estranea alla rivolta del ghetto del 18 gennaio 1943, cinque mesi dopo.

Arrivati ai binari dove il treno per il campo di sterminio di Treblinka li attendeva, narra la leggenda, un soldato nazista si avvicinò al maestro e gli disse: “Lei no, signor Goldszmit, Lei è stato il mio insegnante all’università, Lei non deve salire sul treno”.

Si tramanda che lui rispose: “S’è forse mai vista una madre che lascia i figli ad uno sconosciuto? Questi 200 bambini, sono i miei bambini”.

E salì con loro. Fine della storia.

Comincio dalla fine, perché qui più che mai altrove, le parole si tramutano in atto d’amore. Korczak (pseudonimo di Goldszmit) lo diceva, non ci si può occupare di un bambino se non lo si ama. 

Amarli sempre e comunque, anche se sono delinquenti: “Create per loro le condizioni affinché possano diventare migliori” (Korczak, Il diritto del bambino al rispetto).

Non li si ama, se non li si considera in tutta la loro dignità di esseri umani.

Non li si ama, se non li si rispetta: 

rispetto per la loro ignoranza, 

per la loro laboriosa ricerca del sapere, 

per i loro fallimenti e le loro lacrime. 

Rispetto per i loro averi. 

Per i misteri e gli scossoni del duro lavoro del crescere. 

Rispetto per i minuti del tempo presente, per ogni minuto che passa, perch’esso morirà e non tornerà più (“ferito, sanguinerà, assassinato, tornerà a tormentare le vostre notti” in Il diritto del bambino al rispetto).

Il rispetto ad avere dei segreti. 

Ad essere quello che essi sono.

La sue parole, la sua storia, sono insegnamenti che affondano radici molto più profonde della banale ricerca di un metodo che funzioni per ottenere figli ubbidienti, bravi e buoni. Vanno a scardinare, come era già successo in me con le parole di Montessori e Juul, la macchina educativa infernale di oggi e di sempre.

Non si tratta di trovare la strategia che pur tratti con gentilezza il bambino, non siamo in guerra. Si tratta di andare a ripulire noi stessi, in fondo a noi stessi liberarci di tutte le limitazioni che ci impediscono di considerare il bambino per quello che è, col rispetto che merita.

“Impara a conoscere te stesso prima di pretendere di conoscere i bambini. Misura i limiti delle tue capacità, prima di fissare quelli dei diritti dei bambini” (Come amare il bambino)

Purtroppo viviamo in un’epoca (ce n’è mai stata una migliore?) in cui affermare semplicemente “col rispetto che merita un essere umano”, non vuol dire molto. Questa è l’epoca nella quale si fanno leggi che rendono reato salvare un naufrago in mare. Nella quale si considera buona cosa avere un’arma nel cassetto, che non si sa mai.

“E’ inammissibile lasciare il mondo nello stato in cui l’abbiamo trovato” (1937)

Come al solito, la vera riflessione pedagogica diventa politica, abbraccia tutto il sistema, non può arrestarsi al cambiamento di un paradigma, ignorando gli altri. Come un’ennesima riforma della scuola, cinta da mura alte. E la società fuori, indenne, impermeabile. Senza macchia di responsabilità.

“Facciamo un bilancio: qual è la parte del PIL che dovrebbe tornare al bambino?” Il diritto del bambino al rispetto

Ma no, il bambino non le paga le tasse.

Eppure nasce col suo bel debito “pro capite”.

“Gli facciamo portare il fardello dei suoi doveri di uomo di domani senza accordargli i suoi diritti d’uomo di oggi”. Come amare il bambino

Nel luglio del 1942, il maestro Korczak invitò la collega Esther a mettere in scena coi bambini della Casa dell’Orfano l’opera “Dak Ghar” (l’ufficio postale) di Rabindranath Tagore. Perché proprio quel testo? Esther faceva resistenza, c’erano tante opere più adatte ai loro protetti. Perché lavorare sulla storia di un giovane con una malattia inguaribile che, chiuso in una stanza, riesce, col potere della sua mente e della sua fantasia, a superare l’angoscia del suo destino?

Il diritto del bambino ad essere amato
foto di Janko Ferlic

Perché tre settimane dopo, i nazisti sarebbero venuti a prenderli per l’ultimo viaggio. Korczak lo sapeva, perché i nazisti stessi l’avevano esortato ad andare via, avvertendolo della loro incombente operazione.

Il suo compito di maestro era in quel momento di prepararli alla morte inevitabile. 

Qual è il compito di un educatore, se non quello di preparare il bambino al suo avvenire?

Al suo, non a quello ipotetico di decenni fa.

I programmi che prepariamo per i nostri bambini sono davvero pensati per loro? 

Sono adatti al loro cuore e alla società che troveranno?

Coltivare la felicità, il senso etico, coltivare la terra, preservare l’anima del bambino e del mondo. Andare avanti spinti dai valori, dall’immagine del mondo che vorremmo per loro, non da un esorabile lasciar-fare, lasciar-dire, lasciar distruggere. Se smettiamo di commuoverci per un essere umano che muore, se smettiamo di sovrapporre empaticamente nostro figlio con un qualsiasi altro fanciullo che soffre, significa che dobbiamo urgentemente fermarci e ricominciare da noi stessi. Adesso. Perché oggi è già ieri e ieri abbiamo già sentito e risentito il silenzio della desolazione dopo la devastazione della violenza.

“Il nostro legame più forte con la vita è il sorriso schietto e radioso di un bambino”.

Per un terreno fertile

Pensiero magico. Sulle ali della creatività, boa per l’autostima.

Credono che se le cose accadono, è perché le hanno desiderate. Se la prendono con la sedia contro la quale hanno sbattuto perché le ha fatto lo sgambetto. Usano insalatiere come castelli e pezzi di pane come treni a vapore. Guariscono tutti i mali del mondo con un bacino. Conoscono la storia dell’origine del mondo, anche se poi se la scordano e ti chiedono di raccontarla. Ti raccontano bugie pur di salvare una rana dal nubifragio in una tazzina vuota. Li avete riconosciuti?

Aggiungere un posto a tavola all’amico immaginario dei nostri pargoletti, non è solo una questione di educazione (I diritti dell’amico immaginario), accogliere tutte quelle stranezze inventive, è proprio un modo di accettare il mondo magico che i nostri bambini ci offrono su un piatto di fiori, di farne entrare un pezzetto nella nostra vita dominata dal pensiero logico-razionale.